La squadra T

Finalmente arrivò il grande giorno: quella mattina prese ufficialmente il via la sperimentazione della Squadra T. Il dirigente del commissariato, il dottor Mollica, fece un piccolo discorso introduttivo: non trattandosi di un esperimento reso pubblico, non erano presenti giornalisti o autorità varie, il tutto fu breve e informale e si concluse con un augurio di buona fortuna rivolto a tutti i collaboratori.

Il principio guida della loro attività era che il nuovo reparto sarebbe intervenuto esclusivamente in caso di crimini che richiedevano un’indagine un po’ più approfondita del normale. I furti, gli scippi, le risse e così via erano considerati reati minori: drammi per chi li viveva e soprattutto li subiva, ma vicende che, dal punto di vista del poliziotto, erano semplici e senza conseguenze.

Ad esempio, quando veniva arrestato uno scippatore, che cosa gli succedeva? Praticamente nulla, un po’ di galera, ma dopo qualche settimana facilmente sarebbe già tornato “al lavoro”, fuori: a Giulia, in soli tre anni di servizio, era capitato di mettere agli arresti diverse volte le stesse persone per gli stessi reati. In più, mancavano i fondi per qualsiasi risorsa: la stampa non ne parlava mai a sufficienza, ma non era pensabile che le auto della polizia potessero rimanere senza benzina o gli stessi agenti non avessero giubbotti antiproiettile adeguati, figuriamoci quindi se per un reato minore, come una rapina in un appartamento o quella di un veicolo, si potevano reperire i mezzi necessari a indagare.

Sarebbe servito avere dieci volte il numero degli agenti in servizio in quel momento. E per di più avrebbero dovuto lavorare gratis.

Tutto ciò era frustrante per chi operava nelle forze. Il lavoro “divertente”, ovvero quello di indagine, si poteva esercitare, quindi, solo in presenza dei reati maggiori: omicidi, sequestri e così via, i crimini che richiedevano l’uso dell’intelletto degli agenti e non solo l’applicazione della legge e la compilazione di scartoffie.

Perciò, secondo il protocollo che era stato preparato nella progettazione della squadra T, da quel giorno in poi, quando i diversi reparti avessero avuto dei problemi organizzativi, di carenza temporanea di personale e, anche e soprattutto, in caso avessero avuto necessità di un “occhio in più” per proseguire con un’indagine complicata, avrebbero dovuto chiamare i colleghi del nuovo gruppo. Giulia aveva riflettuto su questo aspetto, che sapeva essere stato vagliato anche dai superiori che lo avevano ideato, e sapeva benissimo che avrebbe potuto accendere più di qualche tensione tra i colleghi: era abbastanza scontato che gli appartenenti a una squadra investigativa si sentissero scavalcati dal loro intervento, tant'è che i dirigenti ne parlarono nel corso dei mesi precedenti con tutti i responsabili, proprio per sensibilizzare e far comprendere loro che non c’era nessun intento di rompere equilibri ormai assestati negli anni o di saltare qualcuno nella gerarchia. L’obiettivo della “T” era esclusivamente quello di ottimizzare le risorse e il lavoro investigativo, ma il rischio di essere boicottati dai colleghi poteva esserci.

Il protocollo prevedeva, inoltre, che l’ingaggio della squadra sarebbe avvenuto anche solo in presenza di ordini superiori. Se il dirigente avesse ritenuto che un nuovo caso fosse alla loro portata, glielo avrebbe affidato d’ufficio.