Hope

Mi chiamo Andrea e sono una studentessa sedicenne. Lo so, lo so che è un nome da uomo qui a Torino, ma tra non molto capirete perché mi chiamo così.

Quella che vi racconto è una vicenda di donne, perché io lo diventerò presto, mia madre lo è stata e, benché in genere siano gli uomini a prendere un certo tipo di decisioni, fu una donna la persona che sedici anni fa mi avrebbe volentieri lasciato morire. Insomma, non è che ce l’avesse con me, non vi era nulla di personale, non mi conosceva nemmeno, ma stabilì di agire in quel modo. E a me piacerebbe molto incontrarla, tanto quanto amerei vedere per una volta il viso di mia madre.

Quella tizia era l’anti-mamma, una figura in negativo. Da bambina, per gioco, ho sempre ricondotto la forma degli oggetti ai numeri e al numero otto ho sempre associato la figura materna. L’otto è tondo, buono, accogliente: quei due cerchi che si incontrano e si fondono rappresentano una specie di abbraccio, come quello tra una mamma e un bambino, che in quella stretta si completano. Il numero otto assomiglia a quelle statuette con cui praticamente ogni civiltà antica rappresentava la fertilità e la maternità: piccole figure femminili, ma con un seno e un ventre enormi, segni evidenti del potere della fecondità.

Se poi l’otto lo metti in orizzontale, diventa il simbolo dell’infinito oppure, in maniera più prosaica, un seno materno, di nuovo un concetto buono, fonte di vita e di nutrimento.

Così, quando a scuola ho studiato i numeri relativi, ho realizzato immediatamente che un meno davanti a una cifra ne avrebbe ribaltato il significato e il valore e non ho potuto fare a meno di associare quella maledetta donna a un meno otto.

Sì, è così, il meno otto è quella tizia con la divisa e il cappello blu: è la bontà, ma con la negazione davanti. E se lo capovolgi e lo sistemi in orizzontale sul foglio, il meno otto in che cosa si trasforma? Il trattino diventa verticale e appare proprio come una lama appesa in alto, che incombe in attesa di abbattersi fredda e affilata a recidere per sempre quei due cerchi uniti in un abbraccio. Esattamente come una ghigliottina. E la divisa e il cappello blu di quella donna erano proprio francesi come il dottor Guillotin, il suo inventore.

Mio padre ha sempre fatto il portinaio, anche se in Sudan aveva studiato legge. Lavora in un bel palazzo del centro e lì viviamo in un appartamento minuscolo, che assomiglia un po’ a una casa delle bambole, ma ci stiamo bene, insieme. Io sono figlia unica, ovviamente, perché non si è mai voluto risposare: ha sempre avuto nella testa anche lui quell’otto bello e accogliente che era la mia mamma. Il condominio ospita degli uffici, ma anche qualche appartamento e devo dire che tutti i suoi abitanti ci hanno sempre rispettato. Anzi, posso affermare con assoluta certezza che io e Fabrizio, il figlio dell’imprenditore che abita nell’attico, siamo reciproci migliori amici.

La questione del colore, lo so che sembra roba superata, ma non lo è. Siamo tutti uguali? Siamo tutti figli dello stesso dio? Non lo so, qualche imbecille che mi ha chiamato negra l’ho trovato anch’io. Specialmente ai tempi delle medie, all’età in cui noi ragazzi non brilliamo certo per intelligenza ma, talvolta, ancora oggi, sul bus o per strada sento addosso il peso di uno sguardo di traverso, diffidente, come se il colore della mia pelle fosse necessariamente indice di malvagità. Ma a parte questi casi sporadici, tutto è andato sufficientemente bene, nonostante le premesse.

E poi ora amo Luigi, un mio compagno di liceo e, dopo che abbiamo fatto qualche volta l’amore, adesso anch’io mi sento un po’ un otto, mi si sono gonfiati i seni e sento un po’ più grande anche il ventre e ho un ritardo di dieci giorni. Mio papà non lo sa: voglio bene sia a Luigi che a lui e non è certo un tradizionalista, ma, insomma, resto pur sempre la sua “bambina”.

Per fortuna la prof di ginnastica è una di quelle toste, ha subito capito che qualcosa non andava e mi ha fissato un appuntamento al consultorio. Sto tremando, non tanto per la paura della gravidanza o del parto, ma perché questo eventuale figlio potrebbe sconvolgermi la vita e un po’ mi dispiace, perché qualche progetto ce l’ho anch’io. Sono brava a scuola e vorrei iscrivermi al Politecnico, ma non so se ce la farei con un neonato.

Comunque non potrei mai abortire, non potrò e non vorrò, perché mia mamma, quando si è accorta di aspettare me, aveva anche lei i suoi piani. Aveva già programmato con papà di attraversare il Mediterraneo per venire in Europa, ma non ha pensato nemmeno per un attimo di uccidermi, anzi, se l’avesse fatto, io non ci sarei ora, ma magari lei, senza quel pancione, avrebbe potuto attendere il disgelo e sarebbe stata in grado di attraversare quel maledetto Monginevro attraverso i sentieri, che tanti altri avevano e avrebbero percorso prima e dopo di lei. Ma mia mamma non ha voluto sbarazzarsi di me, e non per motivi etici, religiosi o morali, ma semplicemente perché in me, un po’ più di sedici anni fa, aveva intravisto la speranza di una vita nuova e infatti aveva deciso di chiamarmi Hope, speranza, appunto, in inglese.

La fiducia in un futuro migliore, in una vita serena e in un lavoro dignitoso grazie al quale mantenersi in pace, senza il terrore che qualche gruppuscolo di mercenari, magari con la scusa della religione, possa piombare in casa ed ucciderti nel pieno della miseria e della disperazione.

E così partirono, una mattina di ottobre, e in poco meno di un mese attraversarono il deserto quasi sempre a piedi e rimasero in una specie di lager in Libia per qualche settimana, quasi niente da mangiare e poco da bere. Dopodiché, via, in mare, su un barcone pidocchioso con due motori fuori bordo di cui uno, quando funzionava, sembrava singhiozzare e sputava fuori un terribile fumo nero. Mio papà, quelle rare volte che riesce a parlarne, dice che sono partiti in cinquanta ma che poco più della metà è arrivata in Sicilia e poi si ferma, con gli occhi lucidi. Stavano attraversando il Mediterraneo a gennaio, approfittando di una bolla di alta pressione con temperature insolitamente primaverili. Lui non ama parlarne, ma lo fa perché in quel modo rammenta anche a se stesso, oltre che a me, le ultime immagini di sua moglie e anche, credo, per ricordarmi l’amore che quella donna provava nei miei confronti, anche se non mi aveva e non mi avrebbe mai conosciuto.

Hanno attraversato l’Italia in treno e a piedi per raggiungere le Alpi e concludere quell’interminabile viaggio in Francia, a Nimes, dove abitavano due fratelli di mio padre e qualche cugino. Ma non arrivavano da un paese con una guerra civile in corso, almeno non ufficialmente riconosciuta, non erano rifugiati o perseguitati politici o religiosi, il cartellino immaginario che portavano appeso al collo, il loro codice a barre, analogo al simbolo cucito sulle tute dei prigionieri dei lager o agli adesivi sui prodotti nei supermarket, non riportava la parola giusta, non erano rifugiati, ma avevano l’etichetta di “semplici migranti che volevano migliorare la propria condizione”. Una merda, insomma, la fame non era sufficientemente drammatica, non li rendeva degni di poter essere accolti: una sottigliezza burocratica, che bastava e basta alla politica che scrive le leggi per distinguere tra un individuo a cui dare ospitalità e una famiglia a cui rifiutarla. E i miei genitori erano un rifiuto, non che volessero chissà che, non avrebbero voluto sfruttare come parassiti la ricchezza dell’Europa, ma solo viverci e lavorarci in pace. Mio padre aveva già un impiego pronto in fabbrica e mia mamma si sarebbe data da fare, magari come sarta o parrucchiera, chissà, non era certo una cui piaceva oziare. Ma quelle mani non avrebbero mai più cucito e non avrebbero mai più tagliato un capello e mai – nemmeno e soprattutto – accarezzato i ricci della mia testa, perché, quel maledetto giorno di febbraio, sul Monginevro, un gendarme di nome Jacques stava male. Aveva fatto le ore piccole la sera prima, si era riempito di alcool e aveva vomitato tutta la notte, ma aveva chiamato in caserma dicendo di avere l’influenza, premurandosi di allertare la sua collega Emilie, che non aveva impegni quel giorno e aveva accettato di buon grado di sostituirlo alla frontiera.

Ora a scuola ci fanno studiare l’Unione Europea e siamo felici e orgogliosi di avere ancora l’euro e i confini aperti, ma allora, nel 2018, il trattato di Schengen era una specie di elastico che ogni paese tirava o mollava a suo piacimento e la Francia, con la scusa del terrorismo, aveva deciso di chiudere le frontiere a chiunque, ignorando di avere dentro di sé, e non fuori, il male che covava. Ma poco contava, l’importante era mostrarsi duri e fare in modo che gli elettori percepissero che le difese a loro protezione fossero alzate e pronte e che li avrebbero preservati da ogni tipo di male, anche se poi non sarebbe servito a nulla.

E così fu che Emilie, più zelante di tutti i suoi colleghi, puntò il mitra verso l’autista della vecchia Opel Zafira sette posti, che da Torino tentava di portare alcuni migranti oltreconfine, e gli intimò di tornare indietro. Mia mamma aveva il pancione, era a metà dell’ottavo mese, e tutti più o meno erano stravolti. Non li fecero nemmeno scendere: gli ordini erano chiari, non avrebbero potuto attraversare il confine, non ne avevano diritto. Girarono il cofano verso l’Italia, ma si fermarono a qualche decina di metri di distanza dalla dogana.

Fu in quel frangente che io, malnata, e mai termine fu più appropriato di questo, forse a causa della fame e degli stenti patiti da mia mamma negli ultimi mesi, decisi di uscire in anticipo dal suo ventre caldo e ruppi le acque. Fu il panico e vennero persi minuti preziosi.

La Zafira tornò da Emilie, mio padre la implorò, ma l’agente non si impietosì. Non c’era un medico e non c’era un posto adeguato per fornire dei soccorsi lassù. Intanto, sciatori comodi e caldi nelle loro tute termiche, ridevano felici sulle seggiovie, diretti verso le cime più alte, pronti a godere dell’ultima discesa della giornata, ignari del dramma pochi metri più sotto. C’era bisogno di un ospedale e anche attrezzato: insieme al liquido amniotico, tra le sue gambe, comparve anche del sangue e il liquido stesso divenne più scuro, segno di sofferenza del feto, che ero io. Si poteva solo andare a Briançon, Torino era troppo lontana, ma Emilie, che in quel momento era l’ufficiale al comando, applicò la legge e il regolamento e, senza saperlo, si trasformò in un meno otto adagiato in orizzontale sulla riga di un foglio, pronto a separare per sempre le due metà di quel numero magico.

Non so, ci ho riflettuto a lungo e all’inizio non capivo come una donna, un essere umano che contiene fin dalla nascita dei potenziali bambini, abbia potuto prendere quella decisione. Dopo molto tempo ci sono arrivata e mi sono resa conto che non c’entra essere maschio o femmina: ho pensato ai nazisti, agli aguzzini dei gulag, ai cecchini di Sarajevo, agli americani con il napalm e via via sempre più indietro, fino ai romani che inchiodavano schiere di poveri cristi lungo i bordi delle vie consolari lastricate di sangue e ho compreso tutto. È il genere umano ad avere l’anima a pezzi: può capitare a un tedesco, a un italiano, a un cinese, a un giapponese o a Emilie, ma a turno il male emerge dal nostro interno e ci mette un meno davanti, a prescindere dal genere, dalla religione e dalla nazionalità.

Poi però, quel malaugurato pomeriggio di febbraio in cui stavo per venire al mondo, nel bel mezzo di quell’indecisione, è arrivata un’altra automobile che ha parcheggiato dietro alla Zafira, che, nel suo ormai quasi perenne avanti e indietro, si era di nuovo allontanata dalla linea di confine. Targa italiana, ma l’autista era un francese: ha visto il sangue e si è fermato a chiedere che cosa fosse capitato. Non era un medico, non era un infermiere, si trattava di un agente immobiliare di quarant’anni che lavorava tra Torino e Briançon. Aveva tre figli e comprese immediatamente il pericolo che stava correndo mia mamma. Guardò mio padre serio e, approfittando di un attimo di distrazione della Gendarmerie, aprì il bagagliaio della sua auto e vi fece entrare i miei.

Attraversò la frontiera con facilità, fingendo calma e indifferenza e poi affrontò la discesa ricca di tornanti più veloce che poté, dopo aver fatto spostare i clandestini sul sedile posteriore. In seguito avrebbe raccontato a mio padre di averlo già fatto altre volte con altre persone, ma quella volta non andò tutto liscio: Emilie, dopo qualche minuto, diede un’occhiata al gruppo di persone accanto alla Zafira e ne contò due in meno, comprendendo di essere stata presa per i fondelli.

Partirono con le sirene spiegate. Ma ormai era tardi: per loro innanzitutto, che raggiunsero, sì, il buon samaritano francese, ma solo dopo che il personale del pronto soccorso aveva già caricato mia mamma sulla barella che subito si tinse di rosso, e tardi anche per lei che spirò da lì a mezz’ora, subito dopo che un cesareo d’urgenza riuscì ad estrarmi dal suo ventre caldo e a farmi respirare per la prima volta. Ancora dieci minuti e sarei morta anche io, dissero i medici a mio padre, quasi a volerlo consolare o a suggerirgli in qualche modo di sentirsi sollevato.

Quel francese venne arrestato e fu processato, ma, fortunatamente per lui, trovò un giudice dotato di buon senso che, a differenza di Emilie, applicò la legge in maniera flessibile e lo assolse.

Mio padre ed io fummo subito rispediti in Italia, poiché la loi c’est la loi, ma comunque lui non avrebbe più potuto vivere in un paese che gli avrebbe riempito il cuore solo di un cupo senso di morte.

A quel francese con la Fiat voglio ancora molto bene, un paio di volte all’anno viene a trovarci a Torino e io lo chiamo zio, ma il suo nome è André, in italiano Andrea, come me.