La finale

All’inizio di giugno del 2017, piazza San Carlo, a Torino, si riempì di tifosi juventini riuniti per seguire su maxi-schermo la finale di Champions League; nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo di lì a poco e, ancora oggi, io stesso faccio fatica a crederci.

Mi chiamo Giovanni e tra le altre cose sono stato l’impiegato del Municipio che, per circa sei mesi, si occupò di gestire il recupero, la riconsegna e, in molti casi, lo smaltimento di tutta la roba che i tifosi bianconeri terrorizzati abbandonarono quella maledetta sera a proposito della quale, dopo tanti anni, nessuno ha trovato ancora una spiegazione certa.

Telefoni, tablet, giocattoli, magliette, accendini, borse, marsupi, portachiavi, occhiali da sole, portafogli, catenine, ciabatte infradito sono solo alcune delle cose che passarono tra le mie mani protette da guanti in lattice.

Catalogare quegli oggetti non fu affatto un lavoro piacevole, ve lo assicuro: ogni pezzo portava con sé una storia e quella sera si era accollato, come per una maledetta magia cattiva, una serie di terribili emozioni.

Tanti mi telefonarono in lacrime dicendo che non ce la avrebbero fatta a riprendere quello che avevano perduto a causa dei ricordi che avrebbe suscitato in loro e pregandomi di distruggerlo. Qualcuno vi rinunciò perché abitava lontano e gli sarebbe costato di più ritornare a Torino, che riacquistarlo.

Ad ogni buon conto, quell’incombenza la scelsi io e non me ne sono mai pentito: chiesero un volontario, tra uscieri e magazzinieri, e alzai la mano, l’unico, a dire il vero. Ancora oggi non saprei spiegare perché, in quel momento mi sembrò di doverlo alla mia città. Punto e basta.

Verso Natale del 2017 la maggior parte delle cose fu riconsegnata e a gennaio del 2018 chiudemmo il magazzino.

Restò solo un oggetto.

Quando separai e catalogai tutto non feci caso a quella fotografia, seppure unica nel suo genere: insomma, nel 2017 chi avrebbe portato con sé la stampa di una foto? Comunque ero talmente sepolto dal lavoro da non guardarla nemmeno; quando rimase lì a “fissarmi”, ultimo e unico resto di quella notte drammatica, ricambiai lo sguardo, e finalmente la osservai. Raffigurava una mamma e un bambino su una spiaggia, lei che lo guardava con occhi amorevoli, lui intento a giocare con la sabbia. Non seppi dire il perché, ma quegli occhi mi rimasero in testa per un po’ di giorni: li avevo già visti; arrivai anche a non dormire per quella che stava diventando una fissazione, finché non riconobbi quelli della persona che potrei definire il mio primo amore. Doveva essere proprio lei, la ragazzina a cui, una vita prima, diedi il mio primo casto bacio sulle labbra e che dopo la terza media persi totalmente di vista, avendo traslocato entrambi in altri quartieri della città. Erano tempi in cui non era facile come oggi mantenere i contatti e poi eravamo giovanissimi.

Comunque sia, nessuno reclamò quell’immagine.

A quell’epoca avevo appena superato i cinquant’anni ed ero felicemente innamorato di mia moglie e a quella ragazzetta, della quale feci fatica addirittura a ricordare il nome, non avevo più pensato per decenni. Eppure, quando la riconobbi mi colse un brivido, o meglio provai esattamente le stesse sensazioni di una quarantina di anni prima, all’uscita della scuola in un giorno piovoso di maggio. Non so spiegarmi bene, ma quegli entusiasmi “da fidanzatini delle medie” non li avevo mai più sentiti, benché fossi stato e fossi ancora innamorato di mia moglie e nonostante potessi affermare con certezza che i tre giorni più belli ed emozionanti della mia vita fossero proprio quelli del nostro matrimonio e delle nascite delle nostre due splendide figlie.

Quell’emozione mi travolse e ne parlai anche con mia moglie Anna, perché si trattava di qualcosa di onesto e pulito, non era rimpianto o rimorso per una relazione mancata, ma era passione e soprattutto nostalgia per un sentimento bello e puro che non c’era più, pesantemente accompagnato da una massiccia dose di rammarico per la lontananza di quegli anni verdi, irrimediabilmente perduti.

Quella bambina si chiamava Emma e al cento percento gli occhi nella foto erano i suoi. Chiesi aiuto: sindaco, vigili urbani, polizia e carabinieri si adoperarono condividendo l’appello su tutti i social network ufficiali, in fondo si trattava di uno degli oggetti reduci da quella notte terribile. Verificarono anche che non si trattasse della sventurata che aveva perso la vita in quel parapiglia infernale e non era lei. L’anagrafe cittadina, infine, confermò che Emma non era residente a Torino. A dispetto dei miei sforzi, gli appelli non ottennero alcuna risposta.

Fu anche pubblicato un articolo sulla cronaca cittadina: l’unico effetto che ne scaturì fu una di quelle terribili riunioni di classe; nessuno sapeva niente e, come me, nessuno aveva più visto la nostra compagna dai tempi della scuola media.

Così terminò la mia ricerca e si chiuse quel capitolo, ma non ebbi il coraggio di gettare quella mamma e quel bimbo (e soprattutto i miei ricordi) nel sacco destinato all’inceneritore. Presi la foto e la riposi tra due gialli di Camilleri, nella libreria di casa mia.

Nel 2043, venticinque anni dopo, ero rimasto vedovo da poco e stavo ovviamente vivendo un periodo particolare; in più il suono “quarantatré” mi ricordava che cent’anni prima il nostro Paese si trovava nel pieno della guerra e che i miei nonni allora erano giovani proprio come i miei tre nipoti dopo un secolo. Mi sentivo come un trait d’union di due “Anni ‘40”, quelli più vecchi che avevano ospitato la giovinezza delle persone più anziane che abbia mai amato, i miei nonni, e quelli più recenti, gli anni dei miei nipoti, i miei nuovi amori, forti e pieni di vita come lo furono i loro bisnonni cent’anni più indietro, ma meno disperati, almeno mi auguravo. Insomma, mi pareva di avere le vertigini, mi sembrava di essere salito su una ruota panoramica tanto tempo prima e di aver quasi concluso il giro completo, l’unico a disposizione, ma così velocemente da avere i capogiri.

Non ci crederete, ma conservavo ancora quella foto e, anzi, da quando era morta Anna la guardavo più spesso: mi sentivo più solo e avevo maggiore bisogno di aggrapparmi ai ricordi.

Avevo coinvolto anche i miei nipoti in quella storia e Marco, il più grande, si era lasciato trascinare quasi quanto me. Era stato lui che, grazie ai suoi occhi più freschi dei miei, ma altrettanto incuriositi da quel mistero, aveva notato un particolare che non avevo mai colto, perso com’ero nello sguardo di Emma. Nella fotografia, sul tavolino accanto all’ombrellone vi era una copia de La Settimana Enigmistica.

“Lascia fare a me nonno!”

Il giorno dopo Marco era tornato con l’ingrandimento di quel particolare e con gli occhi che brillavano come quelli di Sherlock Holmes mentre illustra a Watson la soluzione di un caso. Aveva individuato due elementi importanti: il numero della rivista, risalente all’estate del 2007, quindi probabile data dello scatto, e poi, annotato a penna sulla pagina del giornale, un recapito telefonico con prefisso 011.

È inutile dire che lo abbiamo composto immediatamente e che velocemente nei miei occhi è comparsa la delusione. Nessuno ricordava Emma, d’altronde erano passati quasi quarant’anni da quando la foto era stata scattata. La voce femminile che ha risposto ci ha promesso però di richiamare dopo aver chiesto informazioni ai vicini di casa poiché, in effetti, quel numero telefonico era stato ereditato dai precedenti inquilini.

Quello che c’era stato tra me ed Emma era roba da ragazzini delle medie, di un’altra epoca: eravamo andati qualche volta al cinema o a far due passi nel nostro quartiere. Tuttavia ricordavo ancora l’emozione che avevo provavo attendendo la sua risposta quando la chiamavo per domandarle di andare a vedere un film insieme, ebbene, quel tipo di batticuore non l’ho mai più provato. In attesa di quella chiamata, ero di nuovo in preda a quelle sensazioni. Dopo due settimane, la ragazza ha telefonato e ha detto che avevamo ragione, in quell’appartamento aveva vissuto una certa Emma per un breve periodo, intorno al 2007, l’anno della foto, ma era andata via poco tempo dopo, seguendo il marito, impiegato presso un consolato straniero, nessuno rammentava quale.

Basta con le ricerche. Ero sconfortato, ma anche un po’ felice di aver fatto qualche passo avanti.

Ed eccoci giunti ad oggi: sono trascorsi altri quattro anni. È il 2047, ho settantanove anni e ne sono passati trenta da quella maledetta finale.

Mi trovo alle Molinette, il più grande ospedale di Torino, quando vi sono entrato il mio intestino aveva un pezzo in più e, anche se i dottori cercano di minimizzare, so benissimo di essere arrivato al capolinea, ma sono sereno.

È estate, questa è l’unica cosa che mi rammarica, andarmene nel pieno del vigore della natura mi rattrista: come diceva il Piero di De André, avrei preferito andar via d’inverno, ma tant’è. Le finestre sono aperte per il caldo e, oltre ai rumori del traffico pressoché continuo di Corso Unità d’Italia, sento anche l’aria e il suo sventolio che ogni tanto raggiunge il mio letto. Gli uccelli cinguettano e le foglie degli alberi mi salutano con il loro fruscio, così come i temporali, che forse sanno di avermi sempre affascinato e, quasi ogni sera, vengono a dirmi addio.

È andata una nuova settimana: nessuno mi dice alcunché, ma l’intervento non deve essere andato molto bene; non mangio più e la figlia che era in vacanza è rientrata in anticipo. Non è un bel segno. Non parlo quasi, ma la testa funziona bene e penso e ripenso a qualsiasi cosa e mi consolo con tutti i miei ricordi felici e, tra questi, spesso il viso di Emma nella foto si sovrappone e confonde con quello fuori dalla scuola.

Va sempre peggio, manca pochissimo, lo so, lo sento. Da un paio di giorni, almeno credo, nei momenti in cui sono solo, passa un volontario, dice di far parte di un’associazione, ma non ha specificato quale. Sarà una di quelle che accompagnano i malati terminali come me verso il loro ineluttabile destino.

Nascere e morire sono in assoluto i due eventi più naturali che aprono e chiudono la nostra esistenza, eppure li abbiamo disumanizzati e resi quasi innaturali, tanto da aver bisogno di essere “accompagnati” sia all’andata che al ritorno. Boh.

Ad ogni modo, il ragazzo – anzi il signore, avrà cinquant’anni, ma rispetto a me è un giovanotto – si chiama Henry ed è molto gentile, mi fa compagnia e compare quando rimango da solo. Se non fossi sempre stato un ateo convinto e senza nessuna inclinazione a credere al paranormale, penserei che si tratti della morte che si manifesta sotto mentite spoglie per farmi gradualmente abituare alla sua presenza.

“Ma che bisogno c’è?” vorrei dirgli, “Guarda che me ne vado serenamente, ho avuto una bella vita”, ma non riesco a parlare e così lo ascolto, anche volentieri, per un po’ almeno. Questa mattina è comparso subito dopo colazione (quella degli altri, visto che io non mangio più) e si è seduto. Ha cominciato a raccontarmi di lui, dice che ha girato il mondo, conosce un mucchio di lingue, ma ha sempre amato Torino, sua città natale, in cui ha deciso di venire ad invecchiare. Parla, parla e parla ancora, sono certo che queste saranno tra le ultime parole che ascolterò, ma non ne ho sempre voglia. I medici poi devono aver messo roba forte in quelle flebo, perché non sento quasi più il dolore al ventre e ho la testa leggera come se avessi fumato della marijuana, non che ne sappia così tanto di quella roba. Sono spossato, ma non ce la faccio a dirlo. Chiudo gli occhi, magari così capisce.

Un momento dopo arrivano i miei, questa volta c’è anche Marco, mio nipote, di ritorno dal mare. Non li riapro, voglio un po’ di tranquillità. Sento che Henry si alza e lo saluta, ma continuo a tenere le palpebre abbassate: ho bisogno di riposo, ma ci sento bene e ascolto quello che dicono, sbircio e vedo che dal suo zainetto Marco tira fuori una busta da lettera, l’altro la prende e lo ringrazia. In quel momento, qualcuno abbassa la tapparella della stanza e un raggio di sole più ribelle degli altri penetra attraverso una fessura e crea un luccichio sulla giacca del volontario.

Apro meglio gli occhi: è una spilla della Juventus.

“Sai nonno”, i due si avvicinano al mio letto sorridenti, “il signor Henry era in piazza San Carlo la sera della finale, studiava a Parigi allora, ma la sua famiglia viveva a Rotterdam”. Sorrisi e sentii gli occhi inumidirsi.

“Oltre che per la partita, venni per recuperare degli oggetti di famiglia in un vecchio magazzino e trovai questa”. Henry mi mostra la busta da cui estrae la foto di Emma e del bambino. Solo ora mi rendo conto che Henry è proprio uguale a quel bimbo di dieci anni. Anzi, è lui, ne sono certo.

“Proprio nel momento in cui è partita la marea umana impazzita, la stavo mostrando alla mia ragazza e l’ho perduta, ma l’avevo già digitalizzata e non mi sono preoccupato di cercarla. E poi, quindici giorni fa, per caso ho visto gli annunci che suo nipote ha messo on line nel ‘43 e l’ho contattato incuriosito.”

Diavolo, vorrei fare mille domande, ma non posso profferire parola; in quel momento dalla porta entra una signora su una sedia a rotelle. Tutti la salutano, immagino che occuperà il letto a fianco al mio, strano però, non mi risulta che vi siano stanze miste in ospedale. La signora punta verso di me e sorride. A parte la carrozzina, mi sembra in forma. Henry e mio nipote ricambiano il sorriso. Le fanno largo e lei si avvicina.

Toglie gli occhiali e mi guarda.

Emma.