Fin da bambino, sono sempre stato affascinato dal vetro: questo materiale misterioso, allo stesso tempo fragile e robusto, solido e trasparente. Rammento numerose emozioni della mia vita legate ai vetri.
Attraverso uno spesso vetro ho visto il mondo dall’alto. Era la prima volta che salivo su un aereo e ho osservato i campi, le colline e poi le montagne e più in là il mare allontanarsi e rimanere, così vasto come mai prima, alla portata del mio occhio. Il finestrino non era particolarmente pulito: pieno di goccioline di pioggia all’esterno e forse della saliva di qualche altro passeggero all’interno, ma ero così emozionato che nulla avrebbe potuto rovinare quel momento. Salutavo la Terra come un bambino sulla ruota panoramica e mi batteva forte il cuore.
Da bambino, nella solitudine tipica dei figli unici, attraverso un vetro osservavo il mio quartiere, la mia città. Quando pioveva e non si poteva uscire, guardavo il traffico, gli alberi e i palazzi di fronte snodarsi e deformarsi attraverso le forme disegnate da quelle gocce di pioggia sulla finestra. Immaginavo che quei minuscoli ammassi di molecole d’acqua fossero microscopici fiumi che lottavano ardentemente per cercare di resistere alla incontenibile potenza della forza di gravità che inesorabilmente li trascinava verso il basso. Oppure pensavo le gocce in competizione tra loro e puntavo su quella che sarebbe arrivata per prima a destinazione. Infine, attendevo che la lastra trasparente, costellata di quei rivoletti, proprio grazie alla loro presenza, si appannasse e mi consentisse di disegnare un cuore, o più spesso, il profilo della testa di Topolino, con le sue grandi e riconoscibilissime orecchie rotonde. Puntualmente arrivava mia mamma a sgridarmi, perché non avrei dovuto sporcare il vetro con le dita.
Attraverso il vetro della tv, ho visto poi scorrere molti dei miei sogni sotto forma di telefilm americani, film western e di pirati, immagini, avventure, corse contro il tempo e, poi, crescendo, ho guardato tutta la vita attraverso le lenti (di vetro) dei miei occhiali, quando sono stato obbligato a metterli.
In questo momento gli occhiali non li indosso quasi più, mi guardano ciechi dal comodino della mia stanza al sesto piano di un ospedale, perché non posso metterli, ma ho ugualmente la testa immersa in un vetro, o meglio, in una specie di gabbia di plastica piena di ossigeno, dicono che così respiro meglio e in effetti sembra anche a me.
Quando sono entrato in ospedale non ero particolarmente agitato, sapevo che avrei dovuto rimanerci qualche giorno, ma, che cacchio? Sono giovane, non ho nemmeno quarant’anni, e questo diavolo di virus ammazza solo i vecchietti, così dicevano, quindi ero piuttosto tranquillo, ma non riuscivo a respirare tanto bene: era come se avessi un peso sul petto e dei lievi, ma persistenti dolori dietro le spalle, niente di ché. Mia moglie tuttavia ha insistito, ha voluto che andassi al Pronto Soccorso.
Là ho trovato una corsia riservata tutta per me, che nemmeno in città nelle ore di punta i tassisti, e, prima di imboccarla, ho salutato la mia consorte, ormai più di due mesi fa. E sì, perché sono qui da una vita, ormai: dicono che il mio sia un caso straordinario, lontano dalle medie delle statistiche mediche. Non peggioro, né guarisco, e dunque vogliono tenermi qui per osservarmi.
Qui dove ho scoperto come funzionano i tamponi: non fanno male, eh, ma cacchio se danno fastidio quando te li ficcano nel naso! E aspetto, attendo sempre il successivo, il prossimo bastoncino infilato nelle narici, perché sono già al quinto e ‘sti maledetti risultano sempre positivi. Tuttavia la febbre non sale mai tanto, ma nemmeno scende, sempre là: a metà tra i trentasette e i trentotto gradi.
Siamo in due nella stanza: il mio compagno quando è giovane, diciamo sotto i sessant’anni, se la cava in un paio di settimane; quando è più vecchio muore, quasi sempre, ne ho già visti tre andarsene via. E cavolo, se mi spezzano il cuore anche se non parlano tanto e si spengono in fretta, perché in tutti questi signori ho riconosciuto qualcosa dei miei nonni: a volte sono omoni, a volte mingherlini, ma ognuno di loro mi ha fatto venire in mente un ricordo dell’infanzia.
Ma tornando al finto vetro che mi circonda la faccia, vedo di nuovo tutto attraverso questa patina trasparente, ma anche quando me la tolgono osservo infermieri e medici — gli eroi, come li chiamano di questi tempi — concentrati e professionali, sempre al di là del loro schermo di plexiglass, quello che hanno davanti al viso e che spero li possa proteggere da questo minuscolo quanto terrificante essere vivente che ci sta portando via il mondo come lo conosciamo. Ormai, come chi non possiede più la vista tende ad affinare l’udito, anche io ho addestrato i miei occhi e riconosco l’umore e la stanchezza del personale che mi sta curando solo dalle espressioni e dagli sguardi concessi da quel poco che posso intravedere dei loro occhi, che compaiono e spariscono dietro i riflessi della plastica trasparente.
E infine, attraverso il vetro del telefono, guardo mia moglie, l’amore della mia vita: la videochiamata è l’unico modo per avere un contatto con lei. Sono fortunato, perché qui il segnale c’è e riusciamo a vedere le nostre facce ed è fondamentale per noi, per me che sono in eterna attesa in un posto sconosciuto e per lei che è sola e aspetta il mio ritorno, reclusa in casa.
E questo vetro del cellulare è quindi attraversato da amore, e non parlo solo del nostro: all’inizio capitava raramente, adesso sempre più spesso, quando ricoverano un anziano, capita che non abbia uno smartphone o, se ce l’ha, non lo sa usare per bene e così lo aiuto a mettersi in contatto con i suoi cari e vedo lacrime di gioia, di rimpianto, di nostalgia e di addio, tutto attraverso il vetro di un telefono. Nonni che baciano le proprie mogli dopo sessant’anni di matrimonio o che piangono quando vedono la nipotina che gli manda un bacio con le manine cicciottelle, relazioni di amore e di affetto lontane e spezzate, con la spada di Damocle del non ritorno a incombere su di loro, come uno spettro maligno.
Il personale mi guarda grato: non hanno il tempo di badare anche a questi aspetti, ma so per certo che se non ci fossi io lo farebbero, ma non credo che sia una questione puramente temporale, sono sollevati perché, almeno nella mia stanza, possono evitare di assistere a questi saluti strazianti, che in molte occasioni si trasformano in addii. E, anche se solo per un peso equivalente a quello di una piuma, un po’ contribuisco anche io ad alleggerire il loro cuore.
Ecco, mentre scrivo stanno arrivando per quello che spero possa essere l’ultimo tampone, me lo auguro, come sempre, anche se, in fondo al cuore, mi rendo conto che desidero anche il contrario, ovvero di mantenermi così, in bilico tra i trentasette e i trentotto gradi, fino alla fine dell’emergenza, in modo che anche io possa dare una piccola mano. Un piccolo aiuto, attraverso il vetro.
Torino, 18 aprile 2020